La prima persona che
mi aprì gli occhi sulla bontà del cicorietta fu mio padre, che si chiamava
Giorgio e che mi ha lasciato a maggio del 2012 all'età di 91 anni tondi tondi
(in realtà mancava un giorno al traguardo). Mio padre, gran cacciatore di
quaglie e di fagiani, mi portava spesso con lui. Io, piccolo, non portavo il
fucile, mio incarico principale era contendere ai cani il riporto degli animali
colpiti: quaglie nei campi di mais marchigiani, fagiani nelle brume toscane,
qualche rara starna nelle pietraie delle colline tolfatane, merli e tordi tra
gli oliveti sabini, allodole e fringuelli nei campi vicino Roma, lepri e
pernici all'Aremogna, beccacce al tramonto lungo il margine del bosco ai radar
di Anguillara.
Solo gli acquatici
erano assoluta prerogativa del nostro cane Tom, che si buttava nelle acque
gelide di Martignano a prender marzaiole, mestoloni, germani, folaghe,
beccaccini o qualche non riconosciuto piviere o svasso. In realtà avevo anche
un altro compito nella caccia, una volta che l'animale fosse stato colpito e io
l'avessi raggiunto, dovevo certificarne la morte e legarlo ai laccioli o
riporlo nella cacciatora. Nel caso fosse solo ferito, dovevo troncarne le
sofferenze uccidendolo con le mie mani. Non racconterò come, ma di sicuro ero
diventato bravo nell'operazione e per lo meno non credo di aver mai prolungato
nessuna sofferenza. A volte (un paio) l'animale che era solo leggermente ferito
provava a scappare correndo sulle zampe, l'allodola è buona camminatrice, e a
nascondersi in un cespuglio o in una crepa del terreno. Allora quando la
prendevo mi guardava e il rimorso
di quello che facevo mi perseguita anche adesso.
La mia conoscenza
della cicorietta risale, con precisione ai primi anni sessanta, quando si
andava insieme a Zio Renzo e a Maurizio Ortolani al dindarolo a uccidere allodole.
La caccia alle allodole è inutilmente crudele e si basa sul fatto che questi
uccelli hanno una attrazione misteriosa per le civette. Ho visto con i miei
occhi punte di allodole deviare nel loro percorso per gettarsi a svolazzare
intorno ad una civetta o a qualche cosa che le assomigliasse, legata su un trespolo
in mezzo al campo. Bastava che sbattesse le ali un po'. La ragione di questa
attrazione mi è completamente oscura, ma so che il mio compito nelle fredde e
limpide giornate di ottobre era quello di muovere le ali del robottino
meccanico che faceva le veci della civetta. Avemmo anche una civetta in carne e
ossa, un prestito di un amico di papà, che tenemmo legata in cantina (mio padre
diceva che le civette vivono al buio e che una cantina era quindi un luogo
adeguato per tenerla) per un paio di settimane. Ma vivendo in città lo zimbello
era di impaccio: troppa puzza nella cantina, troppo complesso nutrirla e trasportarle
e dopotutto neanche molto soddisfacente il risultato. Ma cerchiamo di non
divagare e torniamo al dindarolo dove nei campi incolti io immobile, se si
eccettua il piccolo movimento del braccio, partecipavo all'uccisione delle
allodole. Il toponimo dindarolo indicava i campi che si trovavano a destra della
linea ferroviaria Roma-Viterbo all'altezza di Anguillara e che la costeggiavano
verso nord. Dindarolo in romanesco vuole dire salvadanaio (dindano le monete
nel suo interno, quando si scuote) e mio padre, chiamava così quei campi che, a
dispetto del fatto di essere vicini a Roma, erano ricchi di ogni tipo di
selvaggina: allodole, tordi migranti sui rari olivi, animali acquatici che
prima di raggiungere il lago pascolavano nelle pozze che si formavano nelle
parti basse in seguito alle piogge, e perfino lepri e fagiani. Alla fine delle
interminabili ore ad attendere sotto la civetta, metallica o reale, l’arrivo
delle allodole si passava agli altri adempimenti, primo tra tutti il consumo
della frittata di pasta e la raccolta della cicoria. Infatti a ottobre-novembre,
la cicoria rispunta dopo le secchie estive, ed è bella tenerella tanto da poter
essere consumata cruda, da sola o in misticanza. Più che cicorietta si parlava
di cicorie, ovvero un misto di erbe che in qualche modo era riferibile alla
Cicoria (tarassaco, crespigno, pie di lepre…), e il tutto veniva profumato con
qualche bulbo di aglio orsino e da qualche rametto di finocchiella selvatica e
di mentuccia. Quest’ultima forse per esorcizzare l’ingiuriosa frase che mia
nonna ci indirizzava quando si tornava senza nulla: pestamentuccia, l’insulto
principe per il cacciatore delle campagne romane.
Ecco quindi la prima
misticanza romana della mia vita, quella che dedico a mio padre:
La misticanza secondo
Giorgio
Cicoria
Tarassaco
Crespigno
Finocchiella
Mentuccia
Aglietto (Aglio
Orsino)