martedì 26 febbraio 2013

Misticanza romana - Introduzione II


La prima persona che mi aprì gli occhi sulla bontà del cicorietta fu mio padre, che si chiamava Giorgio e che mi ha lasciato a maggio del 2012 all'età di 91 anni tondi tondi (in realtà mancava un giorno al traguardo). Mio padre, gran cacciatore di quaglie e di fagiani, mi portava spesso con lui. Io, piccolo, non portavo il fucile, mio incarico principale era contendere ai cani il riporto degli animali colpiti: quaglie nei campi di mais marchigiani, fagiani nelle brume toscane, qualche rara starna nelle pietraie delle colline tolfatane, merli e tordi tra gli oliveti sabini, allodole e fringuelli nei campi vicino Roma, lepri e pernici all'Aremogna, beccacce al tramonto lungo il margine del bosco ai radar di Anguillara.
Solo gli acquatici erano assoluta prerogativa del nostro cane Tom, che si buttava nelle acque gelide di Martignano a prender marzaiole, mestoloni, germani, folaghe, beccaccini o qualche non riconosciuto piviere o svasso. In realtà avevo anche un altro compito nella caccia, una volta che l'animale fosse stato colpito e io l'avessi raggiunto, dovevo certificarne la morte e legarlo ai laccioli o riporlo nella cacciatora. Nel caso fosse solo ferito, dovevo troncarne le sofferenze uccidendolo con le mie mani. Non racconterò come, ma di sicuro ero diventato bravo nell'operazione e per lo meno non credo di aver mai prolungato nessuna sofferenza. A volte (un paio) l'animale che era solo leggermente ferito provava a scappare correndo sulle zampe, l'allodola è buona camminatrice, e a nascondersi in un cespuglio o in una crepa del terreno. Allora quando la prendevo mi guardava  e il rimorso di quello che facevo mi perseguita anche adesso.
La mia conoscenza della cicorietta risale, con precisione ai primi anni sessanta, quando si andava insieme a Zio Renzo e a Maurizio Ortolani al dindarolo a uccidere allodole. La caccia alle allodole è inutilmente crudele e si basa sul fatto che questi uccelli hanno una attrazione misteriosa per le civette. Ho visto con i miei occhi punte di allodole deviare nel loro percorso per gettarsi a svolazzare intorno ad una civetta o a qualche cosa che le assomigliasse, legata su un trespolo in mezzo al campo. Bastava che sbattesse le ali un po'. La ragione di questa attrazione mi è completamente oscura, ma so che il mio compito nelle fredde e limpide giornate di ottobre era quello di muovere le ali del robottino meccanico che faceva le veci della civetta. Avemmo anche una civetta in carne e ossa, un prestito di un amico di papà, che tenemmo legata in cantina (mio padre diceva che le civette vivono al buio e che una cantina era quindi un luogo adeguato per tenerla) per un paio di settimane. Ma vivendo in città lo zimbello era di impaccio: troppa puzza nella cantina, troppo complesso nutrirla e trasportarle e dopotutto neanche molto soddisfacente il risultato. Ma cerchiamo di non divagare e torniamo al dindarolo dove nei campi incolti io immobile, se si eccettua il piccolo movimento del braccio, partecipavo all'uccisione delle allodole. Il toponimo dindarolo indicava i campi che si trovavano a destra della linea ferroviaria Roma-Viterbo all'altezza di Anguillara e che la costeggiavano verso nord. Dindarolo in romanesco vuole dire salvadanaio (dindano le monete nel suo interno, quando si scuote) e mio padre, chiamava così quei campi che, a dispetto del fatto di essere vicini a Roma, erano ricchi di ogni tipo di selvaggina: allodole, tordi migranti sui rari olivi, animali acquatici che prima di raggiungere il lago pascolavano nelle pozze che si formavano nelle parti basse in seguito alle piogge, e perfino lepri e fagiani. Alla fine delle interminabili ore ad attendere sotto la civetta, metallica o reale, l’arrivo delle allodole si passava agli altri adempimenti, primo tra tutti il consumo della frittata di pasta e la raccolta della cicoria. Infatti a ottobre-novembre, la cicoria rispunta dopo le secchie estive, ed è bella tenerella tanto da poter essere consumata cruda, da sola o in misticanza. Più che cicorietta si parlava di cicorie, ovvero un misto di erbe che in qualche modo era riferibile alla Cicoria (tarassaco, crespigno, pie di lepre…), e il tutto veniva profumato con qualche bulbo di aglio orsino e da qualche rametto di finocchiella selvatica e di mentuccia. Quest’ultima forse per esorcizzare l’ingiuriosa frase che mia nonna ci indirizzava quando si tornava senza nulla: pestamentuccia, l’insulto principe per il cacciatore delle campagne romane.
Ecco quindi la prima misticanza romana della mia vita, quella che dedico a mio padre:
La misticanza secondo Giorgio
Cicoria
Tarassaco
Crespigno
Finocchiella
Mentuccia
Aglietto (Aglio Orsino)

Misticanza romana - Introduzione I



Tra poco comincia la breve e intensa stagione della misticanza romana. Crescendo sarà buona cotta ma da ora fino a maggio si può mangiare cruda, magari condita, come faceva mia madre con la salsa delle puntarelle: alici, aglio, olio e aceto. Forse sono troppo estremista e sicuramente il periodo di raccolta si può allungare, togliendo nel caso qualche elemento che andando avanti con l'anno sarà diventato troppo coriaceo.

Misticanza vuole dire mescolanza e indica una insalata composta da varie erbe selvatiche mescolate insieme per dare una sinfonia di sapori, consistenze e odori. Per quello che so sulla misticanza sono debitore a varie persone, ad un paio di testi di botanica e a qualche sonetto. Nella Roma vecchia, la misticanza era indissolubilmente legata agli orti semi-selvatici che erano presenti nell'enorme perimetro delle mura aureliane, prima dell'arrivo dei piemontesi solo parzialmente abitato. C'erano invece i frati che portavano il giorno della questua le verdure selvatiche nelle case dei romani come ci ricorda il Belli: “Tu fatte lègge er libbro che cià er frate che porta er venerdì la mistocanza”. Lo stretto legame misticanza- Roma - frati è sottolineato anche dallo Iandolo (mio parente acquisito) che così scrive:


Misticanza d’indiviola
D’erba noce e de ricetta,
caccialepre e lattughella,
cò dù fronne de rughetta:
misticanza delicata,
saporita, profumata!
C’era ancora dentro er sole,
c’era l’aria frizzantina,
de quell’orto de li frati
sopra a piazza Barberina.

Ho avuto parecchi maestri e, come vedremo, maestre, dai quali ho imparato che non esiste la "misticanza perfetta" ma che la composizione in erbe è cosa dibattuta e sicuramente variabile nelle differenti parti del paese in base alla disponibilità e sicuramente al gusto. Ma noi rimaniamo nel Lazio e prendiamo come indicazione, per lo meno iniziale la poesia di Romeo Collalti, poeta romanesco a cavallo del secolo (quello passato) e noto per i suoi sonetti gastronomici. Ecco qua la composizione - probabilmente la più completa - della misticanza per Romeo Collalti:

La misticanza è un piatto che fa gola
L'armonia de' l'odori più perfetta:
Er crispigno, l'ojosa, la riccetta
L'acetosa, er crescione, l'indiviola

La cariota, un'inticchia de' ruchetta
Co' quella grinta sua che c'ha lei sola
L'erba noce du' fronne d'ascarola
Er piedigallo, un po' de' cicorietta

E metti caccialepre, lattughello
E piede de papavero e porcacchia
E metti bucalossi e pimpinella.

Fra tutte `ste verdure er monno è un prato,
E tu te ce scaprioli tra la pacchia
De `ste ghiottonerie che Dio c'ha dato.

Laconicamente, il mio collega botanico, Alessandro Travaglini, risponde così alla mia richiesta di lumi sul sonetto:


A Roma (nomi dialettali): piè di gallo (Chrysanthemum segetum), oiosa (Tordylium apulum), crispigne (Sonchus sp.pl.), piede di papavero (Papaver rhoeas), caccialepre (Reichardia picroides), cornetti (Silene vulgaris), raponzoli (Campanula rapunculus), cicoria o mazzocchi (Cichorium intybus), porcacchia (Portulaca oleracea), pimpinella o erba noce (Sanguisorba minor), acetosa (Oxalys sp. pl.), crescione (Nasturtium officinalis), indiviola (Cichorium endivia crispum), ruchetta (Eruca sativa), ascarola (Cichorium endivia latifolium), lattughello (Chondrilla juncea)
Di molte di queste specie si usano le foglie basali o le piante in fase di sviluppo vegetativo (germogli), della campanula foglie e radici.  Non è detto che si usino tutte le specie, se ne possono usare anche solo alcune.

Come avete potuto vedere, neanche l'esperto amico botanico è riuscito a capire cosa sia esattamentela riccetta e il bucalossi, mentre in alcuni casi (acetosa, crispigno e forse cicoria) indica come vedremo, un gruppo di specie affini.

Un altro poeta, Leonardo Spicaglia, questa volta della Tuscia così ci elenca gli ingredienti della misticanza in questo indimenticabile sonetto:



Quanno sapete che fa tempo bbello

annate in dove ce so' li prati sòdi,

co' 'na bbusta de plastica e un cortello.

Per arivacce ce so' tanti modi.



Ma er ppiù mejo sarebbe annà a pedagna.

Cominciate a cercà si tra l'erbetta 

ppe' caso ce sta quela che se magna.

Si, propio quela llì:  la cicorietta.



Ma si a voi nun ve piace er gusto amaro 

c'è er cacialepre co' la finocchiella 

er sucamèle co' 'n po' de paparo.



ppe' finì' de fa' la misticanza 

l'acido agretto de la pimpinella.

Ve fa bon sangue e fa calà la panza.

Le erbe sono più o meno le stesse del sonetto precedente con l'eccezione della finocchiella (Foeniculum vulgare, Miller) e del misterioso succamele (Forse la pugliese Sporchia ovvero la Orobanche crenata ma ne discuteremo dopo). Purtroppo il sonetto è "macchiato" nella sua poeticità dal terzo verso "con' 'na busta de plastica..." che francamente si poteva evitare. 
Ultimo sonetto che mi ha fatto da guida nella ricerca delle componenti base dell'insalata romana per eccellenza è quello di Benedetto Micheli


Primofior, grispigno, ogliosa,
piedigal, ruca e acetosa,
se riccoglie, in qua e là,
e se fa misticanzina
che magnalla una riggina
se potrebbe contentà

Qui l'erba misteriosa è rappresentata dal "primofior" che forse è la margherita marzolina, edibile se non eccelsa.

Finisco questo post introduttivo dicendo che è mia presunzione un processo di codificazione di questa profumata insalata, per cui nel blog eliminerò e aggiungerò a mio insindacabile parere le erbe dei miei prati e della mia anima.