domenica 16 agosto 2020

Camoscio al Timo di Montagna

 Le straordinarie proprietà aromatiche di questo tipo di Timo, che cresce sulle montagne intorno a Val di Pejo, e chissà in quante altre valli alpine, le appresi dal Berti Gino, cacciatore di cervi e camosci. E' lui che ci ha affittato questa baita a mezza costa da cui si gode uno spettacolo di rara bellezza.  


Isolati da tutto, siamo stati qui, coadiuvati da una cucina economica/stufa a legna, da un boiler per l'acqua del bagno ugualmente a legna e da due efficienti pannelli solari, per alcuni giorni.  

Quei giorni li abbiamo passati a far passeggiate, raccogliere funghi, leggere Dante e Ovidio, e a parlare con il Gino, che ogni tanto veniva su dalla valle a vedere che tutto andasse bene. 

In una di queste occasioni, come ci aveva promesso, si inerpicò con la sua panda 4x4 per la via sterrata che in soli 15 minuti porta alla baita, in compagnia della moglie, che portava con se una pentola piena di spezzatino di camoscio che il Berti aveva cacciato su una cima che mi indicò più di una volta. 

 

Lui lo aveva cacciato, lui lo aveva cucinato e lui sceglieva le persone che più gli garbavano con chi condividerlo. 


Ed ecco la ricetta del Berti del "Camoscio al timo di montagna". 

Si tritano finemente grani di ginepro, due foglie di alloro, salvia e timo in quantità, si aggiunge pepe e sale. Il macinato si tiene lì pronto. Si tagliano a cubetti piccoli la carota (non troppa sennò è troppo dolce) e il sedano (non troppo sennò è troppo amaro) ma non si mette la cipolla che al Berti non piace. Si fa soffriggere nell'olio - lui ricorda che prima si usava lo strutto ma adesso di buono non se ne trova più - lo spezzatino di camoscio. È importante in questa fase far "perder acqua" allo spezzatino; quanto tempo necessita questa operazione dipende da quanto è vecchio il camoscio, ma "lo vedi tu". Si aggiunge il battuto e si fa soffriggere con la carne e poi il macinato di timo e spezie. Una altra rosolata e poi giù una bottiglia di Teroldego (per circa un chilo di carne) e si fa andare finche il sugo non è ridotto e la carne morbida (dipende dall'età del camoscio, nel caso necessitasse più cottura delle due ore che abbisogna un animale giovane aggiungere acqua calda).

Il piatto che ne era risultato era eccellentemente accompagnato da polenta cotta nel paiuolo di rame sulla stufa della baita (più di un'ora) e da una bottiglia di Teroldego (Ah averci avuto un Lagrein, magari riserva!). Bevemmo al cacciatore e al camoscio il cui sacrificio aveva reso conviviale una nottata di pioggerella incessante.


Ora a parte la ricetta qualche considerazione va fatta. Della bontà del piatto si è già detto, della bellezza di vedere quegli animali zompare da sasso a sasso sulla montagna come fossero ballerini, benché difficile da descrivere è facile da immaginare, toglierne uno dai suoi picchi e dalla sua libertà è chiaramente una crudeltà e un abuso verso la natura e la società. Non basta dire che una cacciata del genere dura giorni di camminate per i monti, mire eccezionali, conoscenze acquisite negli anni e forse nelle generazioni. Non basta neanche, dire che la caccia è di "selezione" e che il numero e le modalità sono strettamente regolamentate e che la quantità dei capi presenti attualmente supera di molto il numero che quei monti possono nutrire (quante carcasse negli inverni rigidi di cervi riempiono le radure intorno alla val di Sole). No la caccia, oggi come ieri, è rapina nei confronti della natura è un togliere qualche cosa che è proprietà di tutti. La sola cosa che le fa perdonare la sua crudeltà è il fatto di rappresentare uno dei pochi legami che ci stringe ancora a quella "natura" che tutti vogliamo difendere ma che diventa sempre più estranea a noi. Il cacciatore e la preda come i dipinti di Lascaux ci insegnano, diventano cosa unica e si instaura una perfetta comunione tra i due. È bello a questo proposito leggere il saggio di Roberto Calasso "Il Cacciatore Celeste" sul passaggio da raccoglitore a cacciatore degli ominidi. Il nostro rapporto con la natura è ora un lungo susseguirsi di atti proibiti o regolamentato da codicilli sanciti da autorità sempre più intersecate, dall'UNESCO alla Unione Europea, allo Stato, giù giù fino a regioni, province, comuni, enti parco. Ognuna di queste istituzioni sancisce regole e tabù, morali o legali, che si interpongono tra noi e la natura. Proibiti o regolamentate sono molte aree del paese, le raccolte - funghi, mirtilli, tartufi, lumache, asparagi.... - l'accendere fuochi, il bivaccare, perfino il campeggiare sotto una certa quota lo è. L'avvistamento di molti animali avviene in capanni prestabiliti sotto gli occhi vigili di guardaparco, volontari ornitologi, protezioni civili etc che ci avvertono che non si possono neanche fotografare certi nidi per evitare che qualcuno poi li possa razziare. Non è possibile "uscire dai percorsi" allontanarsi dai capanni di avvistamento, passeggiare fuori dai sentieri in montagna. Io qui, la "natura" lì, divisi da un fossato sempre più largo. Mi domando quanto questo approccio ci permetta di renderci conto che noi, i cacciatori e loro i camosci siamo la stessa cosa, stretti dal comune destino di nascere, sopravvivere quel tanto che basta per mandare avanti in nostri geni e poi scomparire per sempre, in una cassa zincata, dentro a una urna cineraria, tra le fauci di lupi affamati o profumati di timo accanto a una polenta cotta almeno un'ora. 

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