Al pratone c'è un albero di visciole (o sarà di marasche o addirittura di amarena?). Ho imparato che la specie è sempre la stessa, Prunus cerasus (diversa dal Prunus avium che da le ciliegie) ma che le varietà danno frutti leggermente diversi ma tutti caratterizzati dall'avere un sapore amarognolo e acidino. Abbiamo deciso che il nostro è un visciolo e così Annele ha deciso che i suoi frutti sarebbe stati usati per rifare il Ratafià di visciole, uno dei suoi liquori casalinghi più apprezzati.
Sia il tronco che le foglie sono molto simile al suo nobile fratello Ciliegio, solo i fiori sono più piccoli e sopratutto i frutti meno dolci ma non per questo meno interessanti.
Difficile mangiarle così come sono, anche quando molto mature, le ciliegie agre, ma ci si fanno marmellate, liquori, si giulebbano o si conservano sotto grappa dando un liquore intenso e profumato. Le giulebbate accompagnano in modo mirabile il petto d'anatra e il filetto di cervo e (forse) tutte le carni di selvaggina nobile.
Avevamo scoperto l'albero nelle nostre passeggiate di "fase uno" insieme al cane, i fiori bianchi ce lo avevano indicato da lontano, in mezzo a cespugli e rovi che costeggiano il pascolo, in quella zona dove, approfittando anche di vecchi tombe etrusche, vive la famiglia De Cinghialis, che qualche volta si arrischia grugnendo fino alla stradina di casa nostra. La raccolta iniziò quando capimmo che merli e storni e forse cornacchie e parrocchetti di importazione mangiavano le bacche mano a mano che queste maturavano. Decidemmo quindi di raccoglierle più immature del dovuto, ma almeno di raccoglierle.
Non fu cosa agevole, utilizzando una scala portata da casa e quel che restava della mia agilità. Mi ricordai di zio Piero, lontano parente acquisito di Bolsena, prete (poi spretato) per bisogno, cantante lirico e soprattutto pittore per vocazione e natura. Di lui si favoleggiava la proprietà intellettuale del simbolo della Columbia Pictures, quella signora così simile a una sua madonna esposta nella chiesa del miracolo di Bolsena. Visse fino a 96 anni, dopo aver seppellito una mogie e due figli, crescendo i suoi tre nipoti al bello e all'armonioso. Di lui ricordo i suoi ultimi tempi, quando la nuora, mia zia, raccontava come Piero fosse come impazzito e dipingesse in modo ossessivo due soli soggetti. Il primo erano le lavandaie come lui, giovane seminarista, le ricordava, supine sul bordo del lavatoio di Bolsena, con grandi sederi e bianche cosce in mostra dopo che le gonne erano state alzate per poter meglio stropicciare i panni. E poi, quando questo soggetto fu bandito dalle zie codine che volevano preservare la nostra purezza di cuore, iniziò a dipingere una mela la quale, quadro dopo quadro, diventava sempre più grande in mezzo ai rami secchi che si intrecciavano e sotto l'albero, ragazze di spalle che si allontanavano.
Era la mela di Saffo quella più dolce di tutte che
"alta sul ramo più alto; i raccoglitori dimenticarono;
ma no, non la dimenticarono
semplicemente, non poterono raggiungerla"
E anche nel mio caso le più rosse, le più dolci delle visciole, erano troppo alte e così dimenticai di coglierle. Ben altre cose irraggiungibili incontrai nella mia vita. Ma a conti fatti, anche stavolta mi accontentai di quelle che colsi.
Caro zio Piero, che mi insegnasti cosa era la mela di Saffo, e a riconoscere le proprietà del timo serpillo (le ragazze di Bolsena a Giugno tornavano a casa odorose di timo dopo le passeggiate ricche di lunghe soste sui prati con i loro amorosi e così odorar di timo aveva uno e un solo significato) e poi i frutti del prugnolo e della corniola e talmente tante altre cose che non saprei elencarle, a te è dedicato questo Ratafià.
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