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domenica 30 agosto 2020

Prugnolo, Pruno selvatico, Sgancio, Strangola cane.... (Rosaceae)

Nubi basse e nere hanno fatto capolino oggi sul lago. Non così buie come a febbraio/marzo, ma tali da creare un po' di agitazione nel cuore di chi le osserva. Si tornerà al pratone, alle interminabili passeggiate alla ricerca di erbaggi e frutti selvatici? 

Di certo il pratone ha qualcosa per noi raccoglitori in ogni periodo dell'anno. Una quindicina di giorni fa, per esempio, ho fatto una bella raccolta dei frutti del prugnolo, la cui esistenza mi riportava indietro ai miei vent'anni, quando i miei genitori affittarono una casa incuneata nelle mura di Bolsena. 


Mio padre, aveva trasformato il giardino della casa in un orto meraviglioso, e i turisti che andando al castello vi passavano di fronte, si fermavano, estasiati dalle sue piante di pomodoro e di melanzane messe in fila perfetta come fossero soldati. Mia madre ci viveva felice. Sopra il camino c'erano tra alcuni libri sulla flora e sulla fauna anche "Il margine del bosco" (Arrighetti, Attilio e Daria (1976). Il margine del bosco: atlante di flora nemorale indicativa. Manfrini Editore, Calliano - TN). E' leggendo quel libro - hygge ma allo steso tempo anche utile - che, per la prima volta, ho sentito nominare il prugnolo e subito dopo, al margine dei boschi vicino casa, ne ho fatto conoscenza. Il libro ha fatto parte della eredità che mi hanno lasciato e ancora oggi lo consulto spesso. 


A quella casa sono legati svariati ricordi, tutti sereni e felici. Una volta, era l'agosto del 1984, eravamo lì con mio figlio Giovanni di neanche un anno. Lui, saranno state le tre di notte, non dormiva, non ne voleva proprio sapere, così mi alzai e lo presi in braccio e passeggiammo per la casa. Quando si fu un po' acquietato ma non ancora del tutto, mi sedetti in poltrona e accesi la televisione. E fu così che vidi in diretta Francesco Damiani che, mettendo al tappeto l'inglese Robert Wells, si conquistò la medaglia d'argento alle Olimpiadi di Los Angeles. Non credo di aver mai più visto un incontro di pugilato da quella notte, ma allora vissi il tutto con trepidazione e alla fine gioii abbracciato a Giovanni finalmente addormentato. 

A chi è interessato dirò che Damiani perse la finale per la medaglia d'oro, alcuni giorni dopo, combattendo contro l'americano Tyrrel Biggs (nella foto). Il verdetto fu definito scandaloso. Lo speaker della BBC affermò che quella era stata "la peggiore decisione che io abbia mai visto in tutti i miei anni di commentatore". Imperitura gloria a Francesco Damiani, figlio di una Italia che non crede a se stessa e che anche quando picchia più forte di tutti non sa difendersi.

http://boxering.fpi.it/index.php/2018/10/04/accadde-oggi-4-ottobre-1958-nasce-a-bagnacavallo-francesco-damiani-auguriiiii/


Detto questo, il Prugnolo, o quel che io intendo come tale, corrisponde al Prunus spinosa di Linneo. 



L'arbusto è di foglie caduche e non supera i 4-5 metri e ha il tronco particolarmente ritorto e ricco di spine. Fa fiori bianchi nella prima primavera e nell'estate/autunno bacche nere dall'aspetto ceroso grandi quanto una mora, che sono fortemente acidule ma di profumo grato. Esse si usano, come vi narrerò presto, per preparare liquorini e marmellate.

domenica 23 agosto 2020

Radicchio dell'orso - Cicerbita (Asteracee)

Chiudo questa serie di post figliati dalla nostra esperienza in baita, con una erba che non conoscevo e non avevo mai assaggiato. Trattasi del radicchio dell'orso (Lactuca alpina, Gray 1883), una pianta appartenente alla famiglia delle Asteracee che mi dice il Gino e, mi confermano i testi, spunta nei giorni successivi al ritirarsi dei nevai. 

La Cicerbita in Italia cresce principalmente lungo l'arco alpino nella fascia compresa tra i mille e i duemila metri. Ha portamento alto, fusto cavo e fiori blu come mostrato dalla immagine riprese dal sito 

http://www.aas3.sanita.fvg.it/it/azienda_informa/whatsaas3/171835_piantevelenose.html#prettyPhoto (Questo sito è una interessante rassegna a cura della ex ASL 3 del Friuli che, oltre a censire alcune piante spontanee eduli della regione, indica i possibili confondimenti che si possono generare con piante tossiche).

Del radicchio dell'orso si consumano i germogli, che nascono ai primi di Maggio e che si possono raccogliere se si seguono i canaloni dove la neve si scioglie. I germogli di queste piante poi evolveranno in una pianta assai differente da quella di un radicchio ma che in ogni caso non sono riuscito a individuare nei prati lì intorno. 



 Pare non essere molto comune e che sia sufficientemente appetito dalle persone e dagli orsi (???) da essere stato necessario regolamentarne la raccolta. Dice il Gino che può essere consumato fresco, ma che il massimo lo da quando, dopo rapida bollitura nell'aceto, è maturato sott'olio con aglio, ginepro, lauro e grani di pepe, per un minimo di due o tre mesi.  E così noi lo consumammo.

 

L'atto con cui, una sera, il Gino ci aprì uno di quei vasetti dove aveva messo a maturare nell'olio il santissimo radicchio fu accompagnato da ritualità tali da farci capire che ci si trovasse di fronte a una manifestazione di grande affetto nei nostri confronti.

Lo mangiammo con del pane non bevendoci altro che acqua della montagna. Era buonissimo.

 

venerdì 21 agosto 2020

Minestra di Striduli (S-ciopetin)

Degli Striduli, che nei prati intorno alla baita del Gino crescono copiosi, abbiamo già parlato. 


Stavolta ho sostituito la ricetta romagnola, ormai consolidata, con una minestra di mia invenzione. Avevo in mente di fare una riedizione dell'acquacotta viterbese sostituendo le verdure della valle con quelle più delicate della montagna.

In pratica, una volta raccolti, ho tolto pazientemente le foglie dagli steli fino ad averne tre o quattro manciate.


Ho fatto andare della cipolla in olio con striscioline di speck comprato qui a valle (non eccelso a dirla tutta). 


Una volta che il soffritto aveva fatto il suo dovere ho aggiunto abbondanti le patate (due grandi per due). 


Dopo breve rosolatura, aggiunsi le foglie dello stridulo. Siccome il tutto mi sembrava un po' troppo delicato per una serata buia in montagna, ho aggiunto anche un po' di foglie di tarassaco che con il suo amarognolo dette un po' di vigore al tutto. 



Una volta che furono appassite le verdure, salai, aggiunsi l'acqua e portai a cottura sulla stufa a legna. 


 Sul piano di cottura della stufa feci bruscare del pane casereccio che servii con la zuppa.


Condito il tutto con olio a crudo e il pecorino stagionato anch'esso preso nella valle (Caseificio Turnario di Pejo), questo si di eccelsa qualità.




Note Finali
Di sicuro c'è ancora da lavorarci su. Prima di tutto meno liquido, forse più rosolate le patate. In ogni caso lo stridulo è erba delicata che forse è più adatta a trattamenti meno rudi. 
Sia quel che sia la mangiammo con piacere con una bianco (portato da casa) della azienda Agricola Casale Marchese.

lunedì 17 agosto 2020

Galletti (Finferli) con un Porcino (Brisa) a far da intruso, all'aroma di Timo di montagna

In questo Blog non si parla di funghi. Dio ce ne scampi di mandare al creatore, per una svista mia o del lettore, qualcuno che scambia una amanita per un ovolo. Si parla di erbe e in particolare, anche qui del timo, qui a profumare un piatto di galletti. Il Berti, il padrone della baita nella quale passammo il nostro inizio agosto, mi condusse su ripide abetaie dove di tanto in tanto si trovavano delle isole di muschio e di erba dove crescevano i fingerli. Era una stagione non adatta ai funghi, troppa secchia, e fu solo grazie alla presenza del Berti riuscii a raccoglierne a sufficienza.

In cambio della conoscenza dei luoghi, insegnai al Berti il mio modo di pulire i galletti, letto anni fa su una rivista di cucina francese. Si toglie con un coltellino la parte terrosa del fungo e a parte si mette a bollire abbondante acqua ultrasalata (direi un quattro pugnetti di sale grosso per litro). Quando l'acqua bolle si gettano i finferli e vi si lasciano fino a che non riprende il bollore. Quindi con una schiumaiola si trasferiscono in uno scolapasta e si procede nella loro cottura come più aggrada. Per prima cosa c'è da dire che questo metodo funziona solo con i galletti (e qualche altro simile che non vi sto qui a dire); non azzardatevi a farlo con porcini, mazze di tamburo, prataioli o peggio che peggio con gli ovoli, li distruggereste. La consistenza del galletto permette che si bistratti un po'. Poi va detto che il sapore non ne risente affatto, anzi rispetto ai lunghi lavaggi in acqua fredda ai quali i funghi sono spesso sottoposti, direi che rimane più persistente. Certo, qualche filo di muschio o ago di abete che non vanno a fondo nella pentola con la terra, rimarranno, ma vuoi mettere???

I funghi li cucinai come so fare, ovvero trifolandoli in olio con dell'aglio e aggiungendo rametti di timo fresco raccolto mentre tornavo dalla raccolta. Un porcino, raccolto il giorno prima e sopravvissuto al contrario dei suoi compari più giovani a una insalata con scaglie di latteria stagionato, finì in pentola a ravvivare il sapore dei galletti. Non dimenticate una abbondante macinata di pepe nero.

Occhio con il sale se avete usato la mia procedura di pulizia!! Assaggiateli prima di aggiungerne. 

Il funghi furono consumati insieme a polenta arrosto e allo spezzatino di camoscio avanzato la sera prima.



Il giorno seguente, quello che era avanzato, mi servì per condire dei maltagliati che stesi io stesso utilizzando la borraccia della Ferrino come matterello. 

Fui molto fiero dell'artifizio che scovammo con mia moglie.

domenica 16 agosto 2020

Camoscio al Timo di Montagna

 Le straordinarie proprietà aromatiche di questo tipo di Timo, che cresce sulle montagne intorno a Val di Pejo, e chissà in quante altre valli alpine, le appresi dal Berti Gino, cacciatore di cervi e camosci. E' lui che ci ha affittato questa baita a mezza costa da cui si gode uno spettacolo di rara bellezza.  


Isolati da tutto, siamo stati qui, coadiuvati da una cucina economica/stufa a legna, da un boiler per l'acqua del bagno ugualmente a legna e da due efficienti pannelli solari, per alcuni giorni.  

Quei giorni li abbiamo passati a far passeggiate, raccogliere funghi, leggere Dante e Ovidio, e a parlare con il Gino, che ogni tanto veniva su dalla valle a vedere che tutto andasse bene. 

In una di queste occasioni, come ci aveva promesso, si inerpicò con la sua panda 4x4 per la via sterrata che in soli 15 minuti porta alla baita, in compagnia della moglie, che portava con se una pentola piena di spezzatino di camoscio che il Berti aveva cacciato su una cima che mi indicò più di una volta. 

 

Lui lo aveva cacciato, lui lo aveva cucinato e lui sceglieva le persone che più gli garbavano con chi condividerlo. 


Ed ecco la ricetta del Berti del "Camoscio al timo di montagna". 

Si tritano finemente grani di ginepro, due foglie di alloro, salvia e timo in quantità, si aggiunge pepe e sale. Il macinato si tiene lì pronto. Si tagliano a cubetti piccoli la carota (non troppa sennò è troppo dolce) e il sedano (non troppo sennò è troppo amaro) ma non si mette la cipolla che al Berti non piace. Si fa soffriggere nell'olio - lui ricorda che prima si usava lo strutto ma adesso di buono non se ne trova più - lo spezzatino di camoscio. È importante in questa fase far "perder acqua" allo spezzatino; quanto tempo necessita questa operazione dipende da quanto è vecchio il camoscio, ma "lo vedi tu". Si aggiunge il battuto e si fa soffriggere con la carne e poi il macinato di timo e spezie. Una altra rosolata e poi giù una bottiglia di Teroldego (per circa un chilo di carne) e si fa andare finche il sugo non è ridotto e la carne morbida (dipende dall'età del camoscio, nel caso necessitasse più cottura delle due ore che abbisogna un animale giovane aggiungere acqua calda).

Il piatto che ne era risultato era eccellentemente accompagnato da polenta cotta nel paiuolo di rame sulla stufa della baita (più di un'ora) e da una bottiglia di Teroldego (Ah averci avuto un Lagrein, magari riserva!). Bevemmo al cacciatore e al camoscio il cui sacrificio aveva reso conviviale una nottata di pioggerella incessante.


Ora a parte la ricetta qualche considerazione va fatta. Della bontà del piatto si è già detto, della bellezza di vedere quegli animali zompare da sasso a sasso sulla montagna come fossero ballerini, benché difficile da descrivere è facile da immaginare, toglierne uno dai suoi picchi e dalla sua libertà è chiaramente una crudeltà e un abuso verso la natura e la società. Non basta dire che una cacciata del genere dura giorni di camminate per i monti, mire eccezionali, conoscenze acquisite negli anni e forse nelle generazioni. Non basta neanche, dire che la caccia è di "selezione" e che il numero e le modalità sono strettamente regolamentate e che la quantità dei capi presenti attualmente supera di molto il numero che quei monti possono nutrire (quante carcasse negli inverni rigidi di cervi riempiono le radure intorno alla val di Sole). No la caccia, oggi come ieri, è rapina nei confronti della natura è un togliere qualche cosa che è proprietà di tutti. La sola cosa che le fa perdonare la sua crudeltà è il fatto di rappresentare uno dei pochi legami che ci stringe ancora a quella "natura" che tutti vogliamo difendere ma che diventa sempre più estranea a noi. Il cacciatore e la preda come i dipinti di Lascaux ci insegnano, diventano cosa unica e si instaura una perfetta comunione tra i due. È bello a questo proposito leggere il saggio di Roberto Calasso "Il Cacciatore Celeste" sul passaggio da raccoglitore a cacciatore degli ominidi. Il nostro rapporto con la natura è ora un lungo susseguirsi di atti proibiti o regolamentato da codicilli sanciti da autorità sempre più intersecate, dall'UNESCO alla Unione Europea, allo Stato, giù giù fino a regioni, province, comuni, enti parco. Ognuna di queste istituzioni sancisce regole e tabù, morali o legali, che si interpongono tra noi e la natura. Proibiti o regolamentate sono molte aree del paese, le raccolte - funghi, mirtilli, tartufi, lumache, asparagi.... - l'accendere fuochi, il bivaccare, perfino il campeggiare sotto una certa quota lo è. L'avvistamento di molti animali avviene in capanni prestabiliti sotto gli occhi vigili di guardaparco, volontari ornitologi, protezioni civili etc che ci avvertono che non si possono neanche fotografare certi nidi per evitare che qualcuno poi li possa razziare. Non è possibile "uscire dai percorsi" allontanarsi dai capanni di avvistamento, passeggiare fuori dai sentieri in montagna. Io qui, la "natura" lì, divisi da un fossato sempre più largo. Mi domando quanto questo approccio ci permetta di renderci conto che noi, i cacciatori e loro i camosci siamo la stessa cosa, stretti dal comune destino di nascere, sopravvivere quel tanto che basta per mandare avanti in nostri geni e poi scomparire per sempre, in una cassa zincata, dentro a una urna cineraria, tra le fauci di lupi affamati o profumati di timo accanto a una polenta cotta almeno un'ora. 

venerdì 14 agosto 2020

Il Timo Serpillo

 I timi, sono molti e tutti molto profumati; sono presenti da nord a sud e io li distinguo in modo maldestro in due grosse categorie, quella degli striscianti, genericamente definibile come Timo serpillo e quella degli eretti che sono (nella mia classificazione)  il Timo vero e proprio. Ne ho trovati sulle pareti rocciose di arse isole greche e tra i muschi del sottobosco alpino, al bordo dei sentieri dei cerreti laziali e tra i muretti a secco di Marettimo. Gli odori variano portandosi dietro quelli della terra dove sono nati. Quello di cui tratterò ora, lo ho tentativamente determinato come Thymus longicaulis (Presl, 1826) che al pari dei suoi congiunti striscianti, appartiene alla famiglia delle Lamiaceae. 


L'aroma che emana sfregando le sue foglie è più lieve di quello dei "serpilli" delle mie parti, ma ha qualche aroma in più che ruba ai larici e agli abeti, nelle vicinanza dei quali cresce.