martedì 27 settembre 2011

Persico trota porchettato.



Ingredienti (x 4): persico trota, eviscerato ma non squamato (1 kg circa), finocchio selvatico, foglie e fiori (un bel mazzetto); olive nere, tagiasche o di Gaeta ma in ogni caso ben saporite (una ventina); Lardo toscano ben condito (80 – 100 gr); aglio, mentuccia romana, un paio di rametti; limone (1); pepe; olio.


Tritare insieme il lardo con le erbe odorose, l’aglio e la parte gialla di mezzo limone. Aggiungere le olive, salare (poco) e pepare. Inserire il pesto nella pancia del pesce e sistemarlo su un foglio di carta da forno su una teglia. Oliare, salare leggermente e cuocere in forno per circa 40 minuti a fuoco medio. A cottura ultimata sistemate il pesce su un tagliere e preparate quattro porzioni: la pelle con le squame verrà via come una crosta di sale e, se il pesce è cotto in modo giusto, spinarlo sarà un gioco da ragazzi.
La salsa che recupererete dalla teglia va, dopo l’aggiunta di qualche goccia di limone, versata sui filetti.




Considerazioni
All’inizio pensavo di porchettare una carpa. Più che dal pesce in se stesso, che credo di aver mangiato una sola volta in vita mia, ero attratto dall’idea: Mi evocava Chagall, violinisti sul tetto, rape rosse ashkenazi e una trattoria di Yehoshua Bin Nun, dove avevo mangiato una drammatica Tilapia che era stata resa edibile dalla sua porchettatura (il grasso di maiale era ovviamente sostituito da olio di oliva). Porchettata avevo anche mangiato un cerniotto che i pescatori di Fiumicino avevano procurato al professore di Zoologia di Tor Vergata, Valerio Sbordoni. Valerio lo aveva bardato e riempito con lo stesso ripieno che io oggi ho usato per il boccalone, poi lo aveva cotto in un forno a legna. Ce lo offrì in una sera di prima estate, mille anni fa, quando Tor Vergata era stata appena fondata e noi ci sentivamo tutti belli, bravi e fratelli.
Nonostante tutto però l’idea di mangiare una carpa non mi aggradava, ma mi sono fatto coraggio e mi sono diretto verso Angeletto la migliore delle tre pescherie di Anguillara. Grazie al cielo, da Angeletto appena entrato ho visto un Persico trota di quasi due chili appena pescato. Così ho deciso di non correre rischi e di lasciare le carpe li dove erano. Il boccalone, così chiamiamo in centro Italia il Persico trota, ha carne soda, poche spine e sapore nobile, quasi di noce. Sopporta bene la violenza del finocchio, mentre il lardo ammorbidisce la sua consistenza “scrocchiarella” simile a quella del Dentice cucinato troppo fresco. Buon piatto equilibrato e sapido. Ci ho bevuto sopra un Ansonica del 2010 (Chiaramonte) e forse questa volta ci ho azzeccato. 
Le foto sono di mia figlia Francesca.

lunedì 26 settembre 2011

Spaghetti al pesto di ruchetta e pomodori secchi con briciole di pane croccante.

Questo piatto l’ho preparato oggi 26 settembre per festeggiare i 32 (dico trentadue) anni di matrimonio con la mia bella moglie, la quale di molto ha gradito. Mia figlia Francesca, come si vede dalla foto, che pure è una buongustaia, ha preferito condire i suoi spaghetti con olio e parmigiano. Odia la ruchetta. La perdono giacché l’olio sabino di Antonella Martini e del marito Stefano Agamennone è una sciccheria.

Ingredienti (x 4): Pasta, corta o lunga che sia (400 gr); ruchetta  (2 mazzetti); aglio (un dente); pomodori secchi (4); capperi (un cucchiaio); nocciole sette o otto (oppure un cucchiaio di pinoli); Olio; pane toscano (due fettine sottili); parmigiano (un cucchiaio).

Mettere a bollire dell’acqua, immergervi i mazzetti di ruchetta per 20 secondi, estrarli, strizzarli, spezzettarli (io ho usato un coltello di ceramica, ma dubito che riconoscerei la differenza nel sapore se avessi usato un coltello di acciaio) e metterli nel bicchiere del minipimer. Aggiungere 3 pomodori secchi (i miei erano già stati rinvenuti in acqua e tenuti in olio, origano e aglio per un mesetto) tagliati a striscioline, un dente di BUON aglio a pezzetti, un cucchiaio di capperi sotto sale, un cucchiaio di granella di nocciole (o nocciole frantumate con un pestello), olio (quanto ne piglia). Omogenizzare con il minipimer. Nel caso, esalta il sapore e favorisce l’omogenizzazione, aggiungete un cucchiaio di formaggio grana o parmigiano. Trasferire dal bicchiere del minipimer ad una padella il pesto, mentre cuoce la pasta. Prendete l’ultimo pomodoro secco, tagliatelo a dadini e aggiungetelo al pesto, per dar colore oltre che sapore. Diluire il pesto con un bel mestolo di acqua “collosa” di cottura della pasta. Scolate e mantecate la pasta per un paio di minuti nel pesto. NOTA BENE: Tenete in una tazza un po di acqua di cottura degli spaghetti che vi potrà essere utile durante la mantecatura nel caso la salsa si seccasse troppo. Aggiungere le briciole di pane abbrustolite (briciole e non pane grattuggiato) e servite. Deliziosi.


Considerazioni
Il trattamento in acqua bollete della ruchetta, allo stesso modo di quello che si fa al basilico nel pesto alla genovese, permette la persistenza del verde brillante delle foglie non compromettendone il sapore.
Al posto dei pinoli che sono travolti dal sapore forte della ruchetta e dei pomodori secchi, ho usato la granella di nocciola: ma anche in questo caso non riesco a percepirla chiaramente nel piatto. Si potrebbe provare con noci tritate o forse addirittura con pistacchi. È da verificare e spero che qualche lettore lo faccia. Per le briciole di pane fritto si può agire in vari modi. Quello che consiglio è di tagliare un paio di fette di pane casereccio spesse meno di un centimetro e poi di triturialo con il coltello; infine di abbrustolire le briciole in un padellino antiaderente aggiungendo del buon olio d’oliva solo a perfetta tostatura del pane. Questa sequenza (brima bruscare poi aggiungere l’olio) mi è stato consigliato (più che consigliato) da Francesco Pusateri mio amico palermitano, principe della malacologia e cuoco sopraffino. Io ci ho bevuto su un sauvignon del collio, ma credo proprio di aver toppato. Consiglio qualche vino fatto con uve che crescono dal Sannio in giu. Sempre bianco, ma più salino e robusto.

L’idea di questo piatto mi viene da una ricetta che ho letto sul sito: http://www.ideericette.it/ricetta-fusilli-al-pesto-di-rucola-e-pomodori-secchi/. Quella che riporto, deriva da una sua evoluzione: la ho rielaborata apportando delle modifiche che la avvicinano al mio modo un po’ burino di intendere la cucina. Ringrazio in ogni caso il sito e spero che non se ne abbia a male per il mio piccolo furto e per le mie manipolazioni.

Ruchetta, Rughetta, Rucola selvatica (Famiglia Brassicaceae)


La Ruchetta (Diplotaxis tenuifolia L.) è una pianta erbacea perenne con foglie pennate, carnose, più o meno profondamente incise, dentate, di sapore piccante; i fiori sono di colore giallo vivo. Cresce ovunque nei campi incolti, sui bordi delle strade, prediligendo terreri brulli e non argillosi. Si raccoglie da marzo a ottobre-novembre in gran parte del paese.






Non può mancare in nessuna misticanza e accompagna carpacci di carne e tartare di pesce, dando forza e allegria al piatto.
Il sapore, inconfondibile è più forte e più persistente della rucola, la congenere coltivata che è facile da reperire in frutteria, nei supermercati e nei menù di molti ristoranti. La rucola coltivata appartiene ad un’altra specie (Eruca sativa Mill). E anche’essa si può trovare nei campi ma, almeno nelle mie zone dove imperversa la ruchetta, con più difficoltà,
Ricette
Quando leggo su un menù un qualsiasi piatto nel quale compare la parola rucola, la mano va alla pistola. Questo mio atteggiamento è un inutile snobismo derivato dall’iper uso di quest’erba iniziato una ventina di anni fa. Qualunque trattoria di quartiere che voleva fare il passo più lungo della gamba, abbandonava i bucatini alla amatriciana per gettarsi su farseschi piatti nei quali il forte sapore della rucola copriva quello di tutti gli altri ingredienti. Oltre che inutile, il mio è uno snobismo controproducente, visto che molti dei piatti in cui compare sono ottimi, come per esempio i carpacci, alcune paste, e non ultimo una banale insalata con pachino (altro termine di cui diffido) e mozzarella. È questa dopo il finocchio, la seconda erba che cito che non può mancare nella misticanza romana.

mercoledì 21 settembre 2011

Gnocchi di patate, porcacchia e grano saraceno al ragù bianco di manzo.

Nonostante la scarsa considerazione che ho di quest’erbaggio come ingrediente di minestre e insalate, sfruttando una grossa pianta cresciutami in giardino, ho voluto provare una ricetta di gnocchi che gira su mille siti sul web. Essendo riportata in ognuno di quei siti in modo identico non so a chi imputarla. Comunque l’ho leggermente modificata e ora ve la ripropongo così come la ho fatta e mangiata stasera.

Ingredienti (x 4): porcacchia, solo foglie e getti teneri (400 gr); patate lessate (250 gr); farina di grano tenero, (120 gr); farina di grano saraceno (70 gr); 1 uovo, 1 pizzico di sale.
Lavare la porcacchia, farla appassire per una decina di minuti in una padella con pochissimo olio e un pizzico di sale. Ho usato una di queste insopportabili padelle di ceramica che lessano invece di friggere, ma che sembrano fatte per questa preparazione. Una volta ridotta, l’ho frullata con il mixer, ma non fino alle estreme conseguenze. La polpa l’ho aggiunta alle patate passate allo schiaccia patate e alle farine. Volevo evitare l’uovo ma l’impasto non mi dava garanzia di tenere e quindi l’ho aggiunto. Fatti i bastoncini e quindi gli gnocchetti che non ho passato sui rebbi perché un po’ troppo molli per farlo (non volevo aggiungere troppa farina). Cotti e serviti con un ragù di carne e cipolla/aglio/salvia, a cui ho aggiunto un bel po’ di Merlot (vini robusti per palati robusti!) e, una volta sfumato quest’ultimo, portato a cottura con acqua nella quale avevo stemperato un cucchiaino di passata di pomodoro (Mutti). Mezzo-pecorino romano, mezzo parmigiano per finire.
Niente male... la scivolosità della porcacchia è abolita dalla farina di grano saraceno e il suo sapore terroso abbattuto dal ragù. Rimane solo il sapore di una bieta più saporita che va a nozze con le patate degli gnocchi.
Considerazioni
Per quanto riguarda il rapporto farina patate, come già detto altrove, quello indicato negli ingredienti è solamente indicativo. Le varietà delle patate hanno diverse esigenze di farina.
Secondo me il piatto è sufficientemente rustico da sopportare condimenti anche più hard di quello che vi ho proposto. Sicuramente salsiccia sbriciolata e cotta con del vino rosso. Sul web c’è un condimento  a base di alici e tocchetti di pane fritto (o pangrattato arrostito in un padellino con un po’ d’olio) che mi attira. Quando lo proverò mi farò sentire. Se lo proverete prima voi, fatevi vivi voi.

Porcacchia, Portulaca, Porcellana (Famiglia Portulacaceae)

La Portulaca oleracea (Linneo) è pianta annuale a tessuti carnosissimi con fusti ramosi sdraiati o eretti e con foglie pure carnose ovate. Fiori gialli, piccoli e poco vistosi. La pianta è una tipica specie antropogena e infesta le colture sarchiate, i frutteti ma in realtà è diffusissima in tutti gli incolti erbosi.


Ricette con la porcacchia
Ricordo bambino, quell’omone di mio zio Fernando Dubois ribadire alla moglie Serafina di non dimenticare mai la porcacchia quando faceva il minestrone. Lo zio lo incontravo praticamente solo d’estate nella sua casa di Anguillara confinante con quella di mio nonno; andavo spesso ad ascoltar da lui racconti di serpenti velenosissimi e di cacce grosse in Africa, tutti episodi, che seppi poi inventate per me e per i miei cugini che l’ascoltavamo a bocca aperta. Ma il suo vero tesoro, quello reale era una enorme collezione di francobolli di ogni epoca e di ogni paese. Grosso e vecchio camminava a stento aiutato da un bastone nodoso. Lo zio veniva chiamato da tutti “il console”, ma console non lo era mai mai. Onorario del Belgio, lo era invece il padre che io non conobbi mai. Mi sfugge ancor oggi cosa sia un console onorario, ma di sicuro era carica sufficientemente ben retribuita da permettergli una feluca, una casa piena di arazzi fiamminghi e, come raccontava mia nonna, dei domestici che servivano a tavola in livrea. 
La porcacchia che non doveva mai mancare nel minestrone, non era l’unica stramberia gastronomica dello zio; a questa era accoppiato il rito barbaro della prima colazione, durante la quale lo zio intingeva nel caffellatte bollente, corpose fette di pane casereccio spalmato di gorgonzola. O forse anche questo era uno dei suoi racconti, inventati solo per stupire i nipoti durante le serate estive.
La porcacchia, in ogni modo, conferisce al minestrone un insopportabile sapore terroso, difetto a cui va aggiunta la fastidiosa scivolosità delle sue foglie. Per questo vi sconsiglio di usarla in questa guisa, a meno che voi non vogliate rivivere con me quei pomeriggi di fine agosto, quando ad Anguillara la tempesta di Sant’Elena ci avvertiva che le vacanze stavano finendo e che era ora di tornare in città. Se poi non volete rovinare le vostre misticanze, fate a meno anche di aggiungerla all’insalata. Non è un caso che la porcacchia un tempo  fu importata dalla vicina Asia, come specie orticola, ma fece una si cattiva riuscita che fu presto usata come foraggio per i porci, da cui uno dei suo nomignoli. Eppure una ricetta che vale la pena di provare, l'ho trovata e la dedico a mio zio Fernando e ai suoi racconti.

venerdì 16 settembre 2011

Gnocchi di patate e ceci con vongole e rosmarino.

Massimiliano, della “Mucca Golosa” di Anguillara, sei-sette anni fa decise di dedicarsi alla ristorazione, scegliendo un buon cuoco e una linea gastronomica da me condivisa: buoni prodotti e prezzi onesti. Sono affascinato dai suoi piatti “plain”, primo tra tutti gli spaghetti burro e parmigiano: spaghetti del Cavalier Cocco, conditi con burro salato della Normandia e parmigiano 36 mesi di non so quale fattoria reggiana: buonissimi. Ovviamente ha in menù piatti ben più strutturati, primo tra tutti questi impareggiabili gnocchi. Il problema è che Massimilano pur essendo un tipo simpatico e alla mano non da le ricette dei suoi piatti. Ecco a voi dunque, quello che penso sia la ricetta di un suo pianto classico, che ho provato a riprodurre, e che se non è identico, mi viene abbastanza simile all’originale.

Ingredienti (x 4): patate 700 gr, farina di grano 170 gr, farina di ceci 60 gr, 800 gr di vongole, 1 spicchio di aglio, vino bianco mezzo bicchiere, rosmarino, OEV.

Cominciamo con gli gnocchi. Lessate le patate con la buccia, sbucciatele, e passatele con un passaverdura. Aggiungetevi le farine e impastate. Il rapporto patate-farine che riporto è totalmente indicativo, infatti esso dipende dalla porosità e acquosità delle patate usate e perfino dal tempo di cottura delle stesse. Quello che non deve variare è il rapporto tra le due farine: grano : ceci = 3 : 1. Una volta che avrete fatto i rotolini e li avrete tagliati in tanti tocchetti, servitevi dei rebbi di una forchetta per creare le classiche rigature d’ordinanza.
Rapidamente fate scaldare abbondante olio e aggiungete aglio e uno o due rametti di rosmarino legati con un filo in modo tale che gli aghi non si perdano nel guazzetto. L’importante è non alzare troppo la temperatura dell’olio affinché gli aromi rosmarineschi siano estratti lentamente senza essere modificato da un eccessivo calore. Aggiungere i molluschi - che avrete fatto aprire a fuoco vivace in una padella insieme ad un mezzo bicchiere di vino secchissimo e che avrete sgusciato in parte – con la loro acqua al soffritto e alzate finalmente il bollore. Mitigato dall’acqua delle vongole la temperatura dell’olio non supererà di molto i cento gradi e gli odori del rosmarino non andranno incontro a modifiche. Gettate gli gnocchi in acqua bollente e, mano a mano che vengono su, prendeteli con una schiumarola e, senza scolarli troppo, gettateli nell’intingolo. Ripassate sul fuoco per un minuto, aggiungete un filo d’olio a crudo e servite. Piatto straordinario.
Considerazioni
La presenza della farina di ceci, conferisce ruvidezza alla preparazione; lo gnocco di sole patate infatti rischierebbe di essere travolto dal sapore del guazzetto di molluschi, mentre il cece, che riesce a sopportare perfino il baccalà, riequilibria perfettamente il piatto. D’altra parte, troppa farina di ceci rende lo gnocco grossolano e, per ragioni fisco-chimiche difficili da capire, anche troppo duro.
Il rosmarino non è un di più: esso è il collegamento concettuale tra i la farina di ceci presente negli gnocchi e il forte sapore dei molluschi.
Quali vongole? Il Tapes decussatus, o vongola pescata o il Tapes philippinarum, quello che le soffianti di Chiogia portano su a tonnellate ogni giorno? La vera vongola verace (oltre al decussatus, vi va aggiunto il romboides e l’aureus) è carissima e introvabile. Inoltre i banchi che sopravvivono, vicino a Cagliari e nel Golfo di Napoli, danno esemplari sempre più piccoli. A conti fatti e, fuori dal coro, direi risparmiate e comprate le “finte veraci” (ovvero il philippinarum, che come dice il nome, ha origini esotiche) e che sono buonissime. L'unico consiglio è quello di comprarle grandi perché il piatto necessita giusti equilibri di misure e consistenze. 

Rosmarino (Famiglia Labiatae)


Il rosmarino (Rosmarinus officinalis) è una pianta arbustiva, perenne con portamento cespuglioso che può raggiungere un'altezza di tre metri. Le foglie sono piccole, prive di picciolo, un po' coriacee, di un bel colore verde scuro mentre i fiori sono riuniti in grappoli che crescono all'ascella delle foglie, di colore azzurro-violetti e presenti quasi tutto l'anno. Cresce spontaneo nella macchia mediterranea e più in generale nelle zone litoranee, ma anche nell’entroterra in zone assolate fino a raggiungere le zone collinari. È possibile raccoglierlo tutto l'anno anche se nelle estati assolate da il suo meglio.
 


Le foto di questi fiori sono state scattate a Castiglion della Pescaia in provincia di Grosseto.

Crostata di fichi

L’altra sera, in occasione dell’ultimo plenilunio d’estate, abbiamo organizzato un picnic notturno al lago di Martignano. L’allegra compagnia, composta da circa una trentina di persone, è partita intorno alle 20 dal Lago di Bracciano (località “la marmotta”) e si è diretta attraverso viottoli di campagna e tratturi fino a Martignano. Una volta arrivati, sono state distese le tovaglie in riva al lago e apprestata la mensa alla luce della luna. Tra le varie leccornie, l’unica consona a questo blog, è la crostata di fichi fatta da Annele, mia compagna e moglie. Ecco come (senza nessun tipo di modifica) riporta la ricetta

pasta frolla:
mescolare 100 g di burro con 100 di zucchero, agggiungere un uovo ntero e un pizzico di sale. Incorporare 200 g di farina eun pizzico (piccolo) di lievito in polvere. Mescolare in modo da non avere grumi di burro. Lasciare in frigorifero 20 minuti.
Stendere poco più di metà dell'impasto in una tortiera ricoperta possibilmente da carta forno. Farcire con uno strato di marmellata di fichi e se ci sono anche fichi freschi tagliati in quattro. Tagliare delle strisce di pasta e formare una griglia che ricopra la marmellata. Sigillare il bordo della crostata pizzicando con le dita. Cuocere per circa 30 minuti, Prima di servire spargere un po' di zucchero a velo.



La marmellata di fichi utilizzata non è nostra, ma di Silvia Sgarallino e Vincenzo Visco (quello degli striduli), da cui aspetto la ricetta originale.

lunedì 12 settembre 2011

Conservazione degli striduli

Ho chiesto lumi all'amico Vincenzo che mi ha risposto via mail quanto riportato di seguito. Anche lui, come vedete, ha abbandonato le rischiose pratiche delle sterilizzazioni per arrivare al congelamento. Comunque ecco cosa mi scrive e voi fatene l'uso che volete.


Caro Stefano, nel corso degli anni c'è stata un'evoluzione tecnologica nell'attività di conservazione degli striduli. Inizialmente preparavo barattoli (da congelare) con striduli e tanta cipolla, poi sono passato a vasini con tanti striduli e poca cipolla, infine quest'anno ho deciso di: 1) cuocere un composto di 90% striduli e 10% cipolla ottenendo così un concentrato da aggiungere alla tradizionale salsa di pomodoro 2) abbandonare il barattolo in favore di piccoli pacchetti monodose in carta d'alluminio (ciascuno 4-5 cucchiai di salsa, dose sufficiente a cena 6 persone). 

domenica 11 settembre 2011

Tagliatelle con gli striduli

Vincenzo Visco Comandini metà sorrentino e metà romagnolo, alla vista degli strigoli viene preso da furore panico, e comincia una raccolta forsennata, incitando gli amici che intorno a fare altrettanto promettendo per la sera la sua famosa ricetta. In realtà la gran parte del raccolto lo utilizzerà per conservarlo in barattolo per i periodi bui.

Ingredienti per condire 6 uova di tagliatelle (ovvero 600 gr di farina): 200-300 g di strigoli lavati, 500 g di salsa di pomodoro, uno spicchio d'aglio, una cipolla medio-grande, 1/2 bicchiere di vino bianco secco, parmigiano, burro, pepe, OEV.

La pasta in casa la sapete fare sicuramente meglio voi di me, quindi passo alla salsa. Tritate finemente la cipolla e uno spicchio d’aglio; io direi che si potrebbe usare anche dello scalogno che riunisce i due sapori, ma la ricetta di Vincenzo non lo contempla. Fate soffriggere il tutto in una pentola. Nel frattempo avrete sfogliato gli striduli e avrete lavato le foglie con cura. Tutte le volte che userete erbe dei campi, dovrete essere più accurati del solito nella loro pulizia. Primo per eliminare eventuali parassiti che si annidano nella pianta, secondo per scartare le eventuali piante intruse, che nella fretta della raccolta potreste avere messo insieme alle erbe buone. Frammenti di foglie non chiaramente riconoscibili vanno sempre scartati. Ecco, una volta fatta l’operazione mettete le foglie lavate nel soffritto, fatele appassire per qualche minuto e aggiungete mezzo bicchiere di vino, sfumato che sia il vino, aggiungete la salsa. Va bene una passata, ma anche dei pelati tritati e anche dei pomodori ben maturi, spellati e tritati finemente. Salate e lasciate cuocere fino a che il tutto non giunge (20 minuti circa) a cottura. Deve accogliere tagliatelle, quindi la salsa dovrà essere non troppo secca; a quest’uopo poco prima di condirci le tagliatelle, aggiungetevi una noce di  burro per renderla più ounteuse e mitigare il forte sapore degli striduli. Scolate le tagliatelle, condite con salsa e parmigiano e abbondante pepe.
Considerazioni
Alcuni sconsiderati mettono anche pancetta nel soffritto iniziale. In altri periodi della vita avrei plaudito a questo gesto. Ora sono per sapori più definiti, meno compositi e la pancetta mi sembra superflua; dovendo proprio aggiungere degli acidi grassi insaturi alla ricetta, preferisco quindi consigliare il burro finale.

Striduli, Strigoli o Schioppettini (Famiglia Caryophyllacea)


Il Silene (vulgaris, cucubalus, inflata....etc) è specie assai polimorfa caratterizzata da un calice ovoidale, con numerose nervature, verde da cui si dipartono petali generalmente bianchi (a volte rosei). I giovani getti nascono da un fusto legnosetto e presentano dei nodi e degli internodi, tipo garofani - che sono della stessa famiglia. Le foglie strette sono carnose, leggermente acidule, gustosissime. Cresce ovunque ma soprattutto in zone ombrose, accanto a fiumiciattoli e in ogni caso zone umide. Forse in montagna ancora è facile, in questa secca estate, trovarne di sufficientemente tenere per le ricette che seguono. Il nome Striduli, credo, sia romagnolo mentre mia moglie che è friulana, chiama questo erbaggio Schioppettin dal rumore simile ad un piccolo scoppio che fanno i fiori quando si stringono forte. 



Schioppettin o Striduli che siano sono ottimi come ripieno di crescioni, piadine o in frittata o, in piccola aggiunta, a minestre e insalate misticanze. Ma per me il loro utilizzo in cucina è indissolubilmente legato alle Tagliatelle con gli strigoli del mio amico Vincenzo.

venerdì 9 settembre 2011

Pizza e fichi

Lo sapevo che oggi sarebbe andata a finire così. In questo settembre di una estate che non vuole finire mai, il caldo toglie appetito a pranzo, a meno che non ci sia una vera leccornia: pizza e fichi. Così sono passato ad un albero di fichi che non mi tradisce mai, proprio dietro Via di San Francesco, e ne ho colti quei pochi che mi servivano, poi ho comprato pizza, non troppo scrocchiarella ma neanche troppo panosa, e prosciutto. Il dolce dei fichi abbisogna di un prosciutto robusto ma non così tanto come quelli burini che si fanno dalle mie parti a Blera o Barbarano e che danno il loro meglio quando incontrano una fetta di uno sciapissimo pane etrusco (primo tra tutti quello di Canale): in questo caso il contrasto è così forte che riesci a berti su anche un bicchiere del po’ acetoso rosso di Cerveteri. No, con i fichi direi che ci vuole un San Daniele o, se si vuole risparmiare, un Norcia dolce. L’esecuzione della ricetta è banale, fermo restando che i fichi devono essere così maturi che non si riesca a togliere la buccia e che si devono “spiaccicare” sul prosciutto. Io ci ho bevuto sopra un bicchiere di Acqua di Nepi, non saprei che metterci su di meglio.


martedì 6 settembre 2011

Petto d’anatra con fichi caramellati

Ingredienti (x 4): un petto di anatra di circa 600 gr, 12-16 fichi bianchi, 2 cucchiai di miele (non caratterizzato, va bene anche millefiori), Timo, Salvia, un bicchiere di passito di Pantelleria (qualunque buon passito o vin santo o perfino Porto andrà benissimo), un cucchiaio di aceto balsamico, OEV, pepe, sale.
Fate marinare per un paio d’ore il petto nel passito con salvia, timo, miele (fate sciogliere bene nel vino) e pepe.
Cuocete in una padella antiaderente il petto, cominciando dalla parte della pelle in modo da renderla ben croccante. Rigirate e salate dopodiché avete due possibilità: trasferire il petto in una teglia e poi metterlo al forno a circa 200 °C per una quindicina di minuti o incoperchiare la padella e mantenerlo sul fornello a fuoco basso per qualche minuto in più. Esistono degli estremisti del petto d’anatra al sangue a cui non appartengo, ma certo l’importante è che il petto non cuoccia troppo, diventando stoppacioso ma rimanga ben rosato nel centro. Cotto che sarà il petto, mettetelo su un tagliere a ridistribuire i propri succhi interni; nel mentre getterete gran parte del grasso di cottura e in quel cucchiaio che ne lascerete, metterete a cuocere i fichi. Dopo 5-6 minuti aggiungete la marinata del petto e fate cuocere per altri 5 minuti. Togliete i fichi, aggiungete l’aceto balsamico (un poco di acidità in tanto dolce ci vuole) e tenete in caldo la salsa che così continuerà a restringersi fino a diventare quasi sciropposa. Tagliate a fette il petto disponendolo su un bel piatto da portata. Sistemate i fichi intorno e servite la salsa a parte insieme a patate arrostite al timo e magari caramellate con un poco di miele al forno.
Considerazioni
Il vostro cardiologo, più che il vostro cuoco deve decidere il fato del grasso dell’anatra, un vero concentrato di colesterolo e trigliceridi con grassi insaturi. Se lui (il cardiologo) è un incosciente o un ignorante e vi darà quindi il permesso di usarlo, usatelo per saltarvi delle patate precedentemente sbollentate con la buccia, poi sbucciate e tagliate in grossi spicchioni oppure lasciatele intere e con dei tagli orizzontali. A metà rosolatura aggiungete uno spicchio d’aglio e qualche rametto di timo e un cucchiaino di miele sciolto in acqua sopra ogni patata. Servitele come contorno del petto d’anatra.
La seconda considerazione riguarda i fichi. Metterli interi o in quarti? Se piccoli e selvatici, come questo blog impone, direi interi. Atrimenti se grossi e un po’ fresconi presi in un negozio, tagliati in quarti in modo che si caramellino meglio durante la cottura.

Fico e Ficastro (Famiglia Moraceae)

Il fico coltivato (Ficus carica sativa) è considerato co-specifico con quello selvatico (Ficus carica caprificus).  Le cultivar del caprifico sono qualche decina, mentre quelle del fico domestico sono diverse centinaia, ma in ogni caso le piante sono molto simili e ugualmente deliziosi i frutti. Pianta inconfondibile, allo stato selvatico si ritrova un po' ovunque nei terreni incolti, vicino a ruderi e nelle siepi che separano campi coltivati. Il latte che sgorga dai rami rotti o dai piccioli delle foglie è urticante e possiede proprietà sfruttate dalla medicina popolare e dalle tecniche degli alimenti. Esso ha infatti una capacità coagulante nei confronti del latte e può essere usato come caglio per fare formaggi. Ma questa è un'altra storia che verrà trattata in seguito. I frutti si raccolgono a giugno-luglio (fioroni) e a settembre-ottobre (forniti). Dicono che questi ultimi siano quasi sempre di gran lunga i migliori. Si usano per confezionari deliziosi dolci ma accompagnano bene anche carni forti, prime tra tutte quelle di cacciagione da piuma e quella di anatra da cortile.

sabato 3 settembre 2011

Sciroppo di more

Prendere un barattolo o una bottiglia di quelle utilizzate per la conserva di pomodoro, riempirle di more, lavate e asciugate versarvi uno sciroppo composto da 400 di zucchero grammi di zucchero sciolto a caldo in 500 gr di acqua fino a ricopritle, chiudete ermeticamente e fate bollire la bottiglia in un recipiente pieno d'acqua per circa 20 minuti, avendo l'accortezza di farla raffreddare nell'acqua stessa. Questo al fine di garantire una adeguata sterilizzazione al prodotto. Potete usarla già dopo un mese dalla preparazione.
Considerazioni.
Anche questa ricetta è di mia zia Maria. Detto questo, dall'epoca in cui fu elaborata, la surgelazione ci è venuta incontro nel complesso e a volte frustrante mondo della conservazione di frutta. Così questo goloso metodo di conservare le more, può essere sostituito dalla surgelazione delle more in sacchetto, ricordandosi di aggiungere, per motivi osmotici, un poco di zucchero. Quando servirà lo sciroppo, scongelate le more e prepararne seduta stante aggiungendovi dell'acqua e zucchero ai frutti e facendo prendere un bollore al tutto. Fate voi, certo il fascino dello sciroppo di zia Maria è tutt'altra cosa.

Pizza d'acqua con sciroppo di more e panna

Ingredienti, per la pizza: uova (4) farina (3 etti) zucchero (3 etti), acqua (8 cucchiai o quanto basta), 1 bustina di lievito; per farcire: sciroppo di more con le more sciroppate contenute (1 barattolo da 500 ml), panna da montare, zucchero a velo.
Per la pizza, mescolare e infornare gli ingredienti. Una volta che è stata raffreddata, su una gratella direbbe un cuciniere esperto, tagliatela a metà e imbibite una parte della pizza con lo sciroppo di more ponetevi sopra le more (sentirete i semini quando la mangerete, ma l'ho detto è torta rustica) e spora ancora della panna. Ricomponete la pizza con la sua seconda metà, bagnatela leggermente con il resto dello sciroppo e guarnite con fiocchi di panna.
Considerazioni
Semplice e festosa questa torta rustica è stata ideata chi sa da chi nel Viterbese e tramandata da mia zia Maria Battaglini in Guidotti da Bolsena. Produttrice di un grande olio d'oliva, la zia, che ci ha lasciato qualche tempo fa, era gran cuoca. Questa ricetta, non la ho mai fatta, ma mille volte l'hanno fatta i miei figli quando erano piccoli e, la ragione è che non può fallire. Se infatti la mancanza assoluta di grassi (latte, olio o burro) la rende meno saporita, d'altra parte fa si che non possa fallire: lieviterà sempre risultando sempre sofficissima. A dare il sapore al tutto ci penserà lo sciroppo di more, di cui di seguito do la ricetta.


giovedì 1 settembre 2011

Pasta con le sarde

Ingredienti (x 4-5): 500 gr di bucatini o perciatelli, 500 gr di sarde (spinate e squamate), cipolla, 3 acciughe salate o pasta di acciughe, uva passa (un cucchiaio, ammorbidita qualche minuto in acqua tiepida), pinoli (un cucchiaio), OEV, zafferano, Finocchiella selvatica.
Cominciamo con la finocchiella. L’ideale è quello primaverile, tenero, con i fusti carnosi, ma - necessità virtù - si può usare anche quello estivo/inizio autunno. Più si va avanti nella stagione, più è forte, per cui ne va usato meno e soprattutto vanno utilizzate solamente le foglie superiori più tenere. La forza del finocchiello dipende anche da dove nasce (mare, campagna) e dalla regione in cui nasce (Sicilia......). Difficile quindi dare una dose esatta. Diciamo a seconda dell’intensità e, del gusto personale, da 300 a 500 grammi pulito. Come ovviare? Il mio amico Mario Lobello ne fa incetta in primavera nella natia Sicilia, la riporta a Roma, dove, dopo averlo pulito e lavato, lo lessa per pochi minuti per poi congelarlo e usarlo nel corso dell’anno. Che dire, regolatevi voi con il “vostro” finocchietto per le dosi. Questo va pulito e lessato nell’acqua dove si cuocerà la pasta e dopo averlo scolato va triturato a coltello e messo da parte. Nel frattempo le sarde (dio come devono essere fresche!!!) belle pulite sono gettate nel’olio dove si è fatta appassire un cipollone (direi bianco, la cipolla va sentita) tagliato fine e fatto sciogliere un trito di alici sottosale (diliscate e sciacquate per bene). Alcuni, quando le sarde cominciano a sfarsi, aggiungono del vino bianco. Io no, il sapore “burino” delle sarde e aromatico del finocchietto, non vanno ammorbiditi da vini ruffiani. Aggiungete piuttosto un po’ d’acqua calda, per mantenere il ragout di sarde sempre morbido, dovrà accogliere una tipologia di pasta, i bucatini, che succhiano abbastanza liquido. Aggiungere anche i pinoli e l’uva che i siciliani chiamano passolina, una uvetta nera e piccolina con sentori aspri che teoricamente cresce solo in Sicilia, ma che può essere sostituita da analoghe uvette (mai bionde!) greche. Sarà poi la volta del finocchietto tritato e, gran finale, dello zafferano che avrete fatto sciogliere in un cucchiaio di acqua calda della pasta. Rimescolate il ragout di sarde e aggiungete i bucatini scolati al dente, mantecandoli con cura. Spero che leggendomi, l’amico Mario non trovi inesattezze, io comunque così la faccio e così mi piace.
Considerazioni.
Un mio vicino di un tempo, siciliano e chiaramente orientato politicamente, ogni primo maggio organizzava un pranzo campestre nel suo giardino, durante il quale tra altre leccornie serviva la pasta al forno con le sarde. In quella ricetta c’erano delle varianti interessanti, prima di tutto usava mezzi ziti o candele spezzate al posto dei bucatini e poi la pasta condita al dentissimo veniva stratificata nelle teglie alternata a sarde fritte. Come per tutte le paste al forno il condimento deve essere abbastanza liquido per non far seccare gli ziti in forno. Sopra a tutto va poi messo del buon pane grattugiato da far dorare sotto il grill prima di servire. Le teglie preparate il giorno prima venivano infornate la mattina del primo maggio per trasformare un giorno di lotta in un giorno di gran festa. Con sarde fritte messe su pasta analoga a quello della ricetta di Mario le ho mangiate anche in un ristorantea Palermo. Per me è un inutile ingolfamento di un piatto quasi perfetto.
Ho tralasciato appositamente le varianti con il pomodoro, che io non adoro. Fate voi, il web ne è pieno.